Frattini
VINCENZO FRATTINI - Massimo Sgroi
La nuova percezione della visione dell’uomo contemporaneo ribalta la prospettiva a cui tutti gli esseri viventi erano abituati. La relazione iconologica con l’immagine ci obbliga ad una compresenza di strutture formali spesso mutuate dall’immaginario collettivo più che derivanti dalla cultura “alta” dell’arte come della visione. La narrazione degli eventi è così frammentata da essere inesplicabile all’interno di un processo cognitivo che di logico ha sempre meno. La memoria percettiva si riflette sulle pareti dello screen finendo per diventare attuale quanto la previsione della relazione sociologica del futuro prossimo venturo; e l’essenza stessa dell’essere umano sta nell’assoluta impersonalità mutogena e deviante dell’oggetto Uomo. Esso vive e si muove in un universo iperreale in cui le forme della realtà stessa derivano sempre più dagli avatar dei mondi elettronici che non dagli esseri viventi. E l’immagine dell’arte, per lo meno nella sua accezione formale, diviene preponderante nella relazione che noi stessi abbiamo con le alterità visuali. Non è casuale, ad esempio, che l’ultima grande innovazione letteraria, quella più contemporanea, il cyberpunk al di là dell’inseririmento di elementi della cultura pop all’interno del processo di scrittura ha una deriva che tende, assolutamente verso le forme astratte della percezione facendole diventare, per sottrazione, complementari alla narrazione stessa. Le nuove generazioni di artisti travalicano, addirittura, la necessità di rappresentare il reale per preferire le nuove forme della fascinazione dell’immagine elettronica.
In tutto questo Vincenzo Frattini è un fabbricante di mondi. Come Vassilij Kandinskij o Piet Mondrina o Gerard Richter, non ha paura di cavalcare la tigre delle alterità, anzi, la sua visione è talmente forte che, nella stessa produzione oggettuale dell’opera, non dipende da nessuna omologazione verso le forme di tendenza dell’arte contemporanea . Egli costruisce il mondo nella sua mente e, attraverso il processo di sottrazione materica, lo riproduce fino all’infinito in un rapporto di clonazione della sua vera essenza. L’elemento centrale della sua opera, deprivato di ogni struttura identificativa, si muove nei landscape della memoria o della vita contemporanea finendo per essere figura identificativa universale e, quindi, riproducibile assolutamente, nell’immaginario collettivo all’infinito. Proprio per l’uso delle forme che amplificano la penetrazione luminosa, Frattini finisce per privilegiare l’elemento essenziale dell’opera su di cui costruisce non soltanto il suo proprio universo, ma quello comune all’intero pianeta. Egli non appartiene ad un mondo esclusivo e riduttivo ma muove la sua arte all’interno di uno spazio che appartiene, ormai, in senso orizzontale all’intero corpo sociale del terzo millennio. E, nonostante l’apparente contraddizione, egli nega il conforme per divenire progetto dinamico della cultura del terzo millennio. Non è casuale, infatti, che il lavoro di Frattini, proprio perché derivante da stilemi classici della problematica pittorica, appartenga all’osservatore dell’opera più di quando appartenga al creatore stesso. Nel suo essere irriproducibile sfugge alla staticità di tanta arte per essere successivamente riprodotto, nella mente dell’osservatore, non in maniera banalmente consequenziale ma modificato, adattato, mutato secondo l’esigenza stessa di colui che si appropria della sua immagine. Non esiste più l’inganno della riproduzione all’infinito dell’opera, tipico di certa cultura legata solamente all’immagine in sé, è piuttosto un detonatore di un accadere artistico, laddove l’arte soddisfa un bisogno primario del fruitore; quello di elaborare l’arte stessa nella propria, individuale relazione. Una posizione estrema che ricorda, per certi versi, l’azzeramento della musica rock della fine degli anni ’70, divenuta ormai troppo complessa e che viene sostituita da un approccio essenziale fino all’estremo. Sembrerà un paradosso ma proprio nella costruzione materica delle suo opere, proprio nella sedimentazione cromatica e nella sottrazione successiva di questa materia stessa sta davvero la capacità dell’artista di tradurre in produzione visuale il mondo in cui vive. E, in un sistema che basa se stesso solo sull’amministrazione dell’esistente, più che nella critica radicale, dichiarare il proprio essere artista attraverso la percezione immediata dell’opera, svela l’intima contraddizione proprio nella sua esplicitazione. E così le tele si sovrappongono così come le campiture per trasformare il colore in forma e, successivamente svuotate per permettere alla luce, in uno straordinario atto simbolico, di penetrarle.
In un mondo che vive sino alla sua estrema esasperazione la sparizione della realtà in un mondo di alterità, quello virtuale, in cui l’immagine sostituisce il manufatto del reale l’opera di Frattini finisce per essere rappresentativa, nella sua negazione della produzione oggettuale di una simile concezione estetica, di una necessità stessa dell’umano; quella di recuperare l’essenza della realtà ordinaria. Poichè, volenti o meno, l’arte è niente di più della vita che noi attraversiamo ogni giorno … fino alla sua estrema esasperazione.